Sorvoli-amo

Mi è sempre piaciuto viaggiare. Lo considero il mio spiccare il volo, librarmi sulla quotidianità, lasciare tutto quello che so e immergermi nello sconosciuto. Amo la sensazione di non capirci niente, perché so che subito dopo arriva quella che mi spinge a cercare di capire e il più delle volte, a riuscirci. Poi non ho potuto farlo più, o almeno non come volevo, per tutta una serie di allineamenti planetari di merda. Così ho imparato a guardarmi meglio attorno, a cercare quella sensazione nei luoghi che pensavo di conoscere da sempre, scoprendo con somma sorpresa, che avevano ancora qualcosa da regalarmi.
Sono sempre stata una persona che ama sentirsi libera, fare quello che sente, dire quello che sente. Ballo, studio, insegno, faccio il mio lavoro, bevo un bicchiere di vino con le mie amiche e lo faccio con gioia. Poi mi hanno chiusa in casa. Allora ho cercato di uscire in un altro modo, fare quello che amo in un altro modo, vivere in un altro modo. Non certo nel modo in cui avrei voluto o che conoscevo, ma in un modo che è pur sempre mio.
So che ci sarà una fine e che presto o tardi tornerà una sorta di normalità. Non la chiamo tragedia, perché le tragedie chi le ha vissute sa che non sono queste, ma la chiamo pausa che fa paura e cerco di impiegare le mie energie per fare del mio meglio per sopravvivere. Non me la prendo con nessuno, ed è una risorsa che non hanno tutti. Ho imparato ad adattarmi, ad accettare, a lasciare andare, a trovare un modo, perché un modo c’è, quasi sempre. Quindi grazie mamma, papà e vita.
Perché so che ce la posso fare.
Anche stravolta.

Adesso esco e vado comprarmi un panetto di lievito, sperando di arrivare a fine giornata senza che nessuno rompa i coglioni. Sì, lo so, sono ambiziosa.

Nella vita capitano brutte cose

Allora le prendi, le nascondi sotto il tappeto e ti dici: “se non le vedo, non esistono”. Così passano, gli, inverni e continui la tua esistenza facendo spazio ad altro. Altre gioie, altri dolori.
Poi arriva QUEL giorno.
Il giorno in cui un vento non necessariamente forte fa alzare un angolino del tappeto.
Pausa panico, poi curiosità “Saranno ancora li?” e ti avvicini.

Pausa panico parte seconda
“E se quando li vedo mi arrabbio? Divento triste? Se fa male?”
Ma se è QUEL giorno, ti rispondi che comunque sia, è passato. Lontano. Perduto.

Allora alzi il tappeto, vai fuori e lo sbatti forte. Ti giri e le vedi li, brutte come sempre, solo più piccole.

Le prendi e… domani deciderai se metterle su una mensola o buttarle via. A seconda di quanto sia importante quanto hanno influito sulla te di adesso.
Per quanto mi riguarda, credo le metterò su.
Sono più bella vestita di lividi.

 

In-Vento

Quando ero bambina mio zio mi ha insegnato ad ascoltare il vento.
La mattina  prima di andare al mare, usciva nel balcone della cucina e metteva un fazzolettino all’aria. “Se tira a Destra Tramontana, se tira a Sinistra Scirocco“. Allora il vento ci diceva dove il mare era buono, noi preparavamo i panini e uscivamo sugli scogli. Il vento ci portava e noi ci lasciavamo portare, senza fare domande. C’erano giornate che il fazzolettino volava troppo per gli scogli, allora uscivamo in spiaggia e giocavamo con gli spruzzi e le onde grandi. Per me quella era magia ma, forse perché ero piccina, non ricordo di averlo mai visto sbagliare.
Non ci fermava, il vento. Quando era arrabbiato, noi saltavamo.

Adesso mio zio non c’è più, ma il vento è rimasto. Davanti al balcone della cucina hanno messo una banderuola, ma non fa lo stesso effetto del fazzolettino. La mia rosa dei venti ha cominciato a comprendere altri venti e altri mari da cui lasciarsi portare o fermare, a seconda. Certi giorni non si può neanche entrare in acqua perché c’è tempesta di fondo o il mare è troppo grosso e di andare a saltare le onde in spiaggia non mi va più. Non è come quando gridavo e mi giravo a guardare mamma seduta che mi faceva segno di non allontanarmi se no “mi portava“. Quindi sono scesa a patti col vento.  Quando grida forte vado dove ho fatto il mio primo bagnetto, posto che tra l’altro è tremendamente scomodo da adulti. Non ci sono spiagge, ma solo una grotta con sabbia bagnata e scogli di tufo che se c’è aria ti vola tutta la polvere in faccia. C’è poco posto per sedersi e i miei amici quando dicevo “voglio andare lì” sbuffavano. Ho costretto sagre di amiche portate in vacanza a farsi trafiggere da punte di pietra che se ti sdrai ti lasciano i buchi, da scogli che non puoi camminare con le infradito bagnate se no perdi la gamba, da ombrelloni che non si possono piantare perché non c’è posto. C’è un angolo però, dove se ti affacci il vento ti porta via i dispiaceri.  Allora io mi siedo lì e lo lascio fare. Lo lascio farmi scorrere tutti i dolori che ho dietro gli occhi, tutte le cose che durante l’anno mi hanno spostata. Sono lì, tutte insieme e io, nuda.

Il vento non si ferma, il vento è. Indicativo Presente. Non importa quanta voglia ho di mandarlo via certi giorni, di scrollare di dosso la sabbia che mi trafigge se mi alzo in piedi in spiaggia e che rimane anche dopo la doccia, la pelle d’oca quando esco dall’acqua. Non importa quanto male faccia. C’è e sempre ci sarà, anche quando io avrò finito i giorni.

Non si può dire basta al vento, ci si può solo riparare, quanto più possibile, dalla scia che lascia anche dopo essere andati via.

  storm2Foto da Ilaria

 

 

Attenta

Dentro questa parola c’è l’attesa, che aiuta il saggio quando c’è dubbio.

Ora, giochiamo che io non ero saggia per niente.
Quando ho parlato mi è capitato di essere mortificata, di gridare parole che non pensavo, di aver le mani che tremano. Mi è capitato di piangere, arrabbiarmi, non volerti vedere più, non volere che tu esista più o solo pensare per tre secondi che eri scemo. E’ capitato che pensassi di essere migliore di te, che tu fossi nient’altro che una faccia tra la folla che cammina solo per deludere gli altri.
Le tue parole erano lance, neanche frecce, giuste, adeguate, lancinanti. E solo perché erano vere. Ero circondata e ho chiesto scusa.

Ora giochiamo invece che ero un po’ saggia, quanto lo permettono 30 anni di vita.
Quando ho parlato mi è capitato di essere lucida, presente. Ho aiutato a trovare una via,  ho incenerito, ho mortificato, ho centrato il punto. Ho giocato con l’italiano sbagliato, ho costruito insieme a te paesaggi immaginari, che facevano volare via, guardare tutto da un po’ più su, dove si respira meglio. A volte invece ho deciso di non pronunciarle, di stare in silenzio. Per vedere cosa accadeva, per vedere fino a dove arrivavi da solo. Ad uscirne o a scavarti la fossa.
Le mie parole sono state lance. Giuste, adeguate, lancinanti. E solo perché erano vere.

Potessi trattenere il fiato prima di pensare, le troveresti le parole giuste per potermi circondare?

Nel caso, son qui che aspetto

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Ac-cade

Da che ho memoria, ho paura di cadere. Dall’ascensore, l’aereo, le scale. Sono riuscita a fare a piedi 11 piani una volta. Anche a scenderli. Con un cane al guinzaglio. In verità credo di ricordare che abbia vomitato sul marciapiede appena usciti. Comunque, non ricordo di essere stata protagonista o spettatrice di qualche caduta pericolosa.  Se ci penso infatti mi intimidisce la sensazione, più che l’idea. Credo sia una specie di vertigine. Sta di fatto che ho una paura che non si spiega, figurati se si racconta, anche se J.K. Rowling ci ha provato con Harry Potter e il Molliccio (se non sai di cosa sto parlando intanto vergognati, poi clicca QUI). Non sono mai stata brava quanto lei a riordinare le idee, per questo scrivo e poi cancello che la tastiera ormai è senza lettere, ma ci provo..

Quando ero piccola vivevo in un plesso di condomini. Dalla finestra del soggiorno vedevo il palazzo di fronte con il tetto a punta, sul quale si appoggiava sempre una Gazza. Becco in su, fiera.

Ogni notte fissavo i calzini bianchi dentro le scarpe nere col laccetto, punta arrotondata. Oltre, il vuoto. Nel sogno aprivo le braccia con un movimento lento, che adesso mi vien da dire consapevole anche se non lo era, e poi alzavo i talloni. Per un attimo ero più alta, stiravo la schiena e la testa andava su su, poi chiudevo gli occhi e mi lasciavo cadere in avanti. Per qualche secondo, l’aria forte contro la faccia. Come quando vai in macchina e cacci la testa dal finestrino e non riesci a respirare perché ti violenta le narici.

Poi, invece di morire, mi svegliavo. Mi svegliavo puntualmente con uno scatto, col fiatone che manco ‘na maratona.

Con gli anni ho perso quel sogno tra un cuscino e l’altro, ma probabilmente mi  capitava talmente spesso, che quella sensazione mi è rimasta dietro le palpebre, addormentata. Ogni tanto ritorna, magari in posti dove non l’avrei mai cercata. Anche se la conosco però, non sono mai riuscita a spiegarmela davvero. Per intenderci, non capirla, quello manco ci provo, ma spiegarmela, darmi un senso, anche se assurdo. L’unica cosa che sono riuscita a dirmi, dopo anni di miseri tentativi è stata: non sai cosa c’è quando apri le braccia e ti butti. Non lo sai neanche se giochiamo che tu eri quello che si buttava e poi mi diceva com’è. Non lo sai neanche se fai una simulata, tipo un sogno, perché tanto prima della fine la realtà ti sveglia a schiaffoni e anche se fosse quando ti svegli ti ricordi solo la paura di morire.

Quindi fai cosa sai e fermati li. Apri le braccia, alza i tacchi. In fondo le più importanti verità nascono per coprire un pericolo percepito, perché la tua non può

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